Il rap, la provincia: intervista al cantante Frankie Flow

10.07.2020

Nel 2019, in occasione dell'uscita del singolo "Un film già visto" abbiamo scambiato due chiacchiere con Francesco, in arte Frankie Flow: nel suo percorso artistico, il rapper, partito da Castellammare di Stabia, ha lavorato con artisti del calibro di Blue Virus, Rocco Hunt e Nazo. Oggi vi proponiamo l'intervista rilasciata ai microfoni di #DLC.

Ciao Frankie! Conoscendo la tua storia, è inevitabile chiederti: la scelta di andare via dalla tua Città è stata causata da motivi personali o lavorativi? Credevi di non poter avere un futuro rimanendo a Napoli? Ma guarda, bisogna comunque considerare che io vengo dalla realtà di Castellammare, quindi non da Napoli: questa cosa è sempre bene tenerla in considerazione perchè, se è vero che Castellammare di Stabia è provincia di Napoli e dista 20 km da essa, è completamente un altro mondo; è una Città comunque provinciale, dove risulta tutto più complicato, a partire dal lavoro passando per la cosa fondamentale, che sono gli stimoli. È per questo che io, fin da piccolo, ho coltivato il sogno di abitare in una grande città, che potesse essere Napoli o qualsiasi altra. In realtà, a me è sempre piaciuta Milano perché è la città dove musicalmente ci sono più stimoli, più eventi, più radio.. e per noi, che siamo cresciuti con il rap negli anni '90, Milano e Bologna erano le due città che - nella nostra testa - erano viste come due miti. Suppongo anche per una questione di strutture: se vivi a Milano hai più possibilità di portare il tuo pezzo in una radio, oppure di promuoverlo attraverso i giornali. 

Se Napoli e Milano non avessero avuto questa differenza di infrastrutture, saresti rimasto a Napoli? Impossibile dirlo: la realtà dice che io sto a Milano e mi trovo bene qui. Castellammare mi manca molto, insieme a tutti gli affetti. Ciò che mi piace sempre sottolineare è che il concetto che ho di "bello", nella mia testa, è costituito da immagini che mi riportano, per forza di cose, a Castellammare. A Napoli ho comunque fatto l'Università: è stata un esperienza bellissima poter vivere la Città, che avevo modo di frequentare solo saltuariamente la sera. Dal punto di vista lavorativo, invece, non ho mai potuto scoprire Napoli: avrei voluto, ma non c'è stata la possibilità. Da ragazzo avrei voluto lavorare a Napoli, vivere al centro storico.. ma non è capitato. È un esperienza che mi manca e che probabilmente farò, ma in un futuro abbastanza lontano. Sarebbe stupendo ritornare nella terra che mi ha dato i natali, tra i miei amici ed i miei affetti. Ciononostante io consiglio a tutti quelli che conosco di andare a vivere fuori dai propri confini; confrontarsi con mentalità e culture diverse è stimolante: ti apre la testa. Io avrei voluto vivere all'estero: sono stato un mese negli USA, a Boston, e la cosa che mi ha colpito di più è che, sebbene non fosse una città estremamente diversa da quelle europee, aveva una serie di particolari che facevano concretamente la differenza.

In generale, al di là della tua situazione, pensi che per avere successo si debba lasciare Napoli? Assolutamente no: chiaramente dipende anche dalla propria concezione di avere successo nella vita. "Avere successo" per me significa fare quelle cose che ti rendono felice, e da questo punto di vista - se ti rende felice stare insieme ai tuoi cari - accontentarti di un lavoro qualsiasi può essere comunque gratificante. Le ragioni sono sempre cose che ti crei tu, sono le tue priorità. Forse una volta era effettivamente così: se lasciavi Napoli per andare al Nord trovavi una realtà decisamente più fertile, ma ad oggi non credo che per avere successo nella propria vita lavorativa si debba necessariamente lasciare Napoli (anche se le infrastrutture carenti e il retaggio culturale frenano il "progresso" della Città). Poi, ripeto, chiaramente è anche un discorso personale e di mercato del lavoro.. e lo stesso discorso vale per quanto riguarda l'arte e la cultura: il problema è anche essere onesto con te stesso; devi capire le tue priorità, chi sei tu e dove puoi stare.

Passando alla tua musica, quanta Napoli - nel senso più ampio del termine - c'è nella tua musica, nella tua arte? Il 100%, assolutamente: la maggior parte della mia musica parla di quello.. poi chiaramente, come ogni persona che fa musica io sono condizionato anche da quello che vivo giorno per giorno. Ma le riflessioni che faccio, le cose che racconto hanno molto a che fare con la mia infanzia e il rapporto con la mia terra natia, anche se non tralascio la mia vita "milanese": da un lato è bello vivere la metropoli, dall'altro in una grande città ci si sente più soli.. ma questo chiaramente vale a Milano come a Napoli così come a qualsiasi altra grande città. Una cosa che mi è sempre piaciuta di Napoli, al di là delle strutture, è che qui c'è un fermento culturale clamoroso: non solo per quanto riguarda l'arte e la cultura ma anche per quanto riguarda il mondo accademico. Napoli è un bel caso di studio per i sociologi, buona parte delle regole del mondo moderno qui hanno senso fino ad un certo punto (si cita Pasolini, ndr).

Quanto invece ha influito Napoli nella scelta di intraprendere una carriera da "rapper"? Francamente molto poco: io ho cominciato a fare rap - e più in generale, musica - fin da piccolo. È stata un po' una reazione: quando sei piccolo reagisci agli stimoli negativi, oppure alla noia. E durante l'adolescenza o sei quello carino che piace alle ragazze o sei quello sfigato all'ultimo banco. E se non puoi essere il ragazzo belloccio, cerchi di diventare "affascinante" in un altro modo.. e ricercando, ricercando e ricercando ancora ci siamo imbattuti nella breakdance. Da lì al rap, poi, il passo è stato breve e abbiamo iniziato a conoscere chi faceva i graffiti, i DJs ed i vari ragazzi che facevano rap: è stato un percorso del tutto naturale. Quando mi chiedono "Sì, ma come si fa a vivere di musica?", io rispondo sempre "Inizia a farla, poi si vede"; anche perchè poi può succedere che mentre lo fai ti accorgi che quella non è la tua strada. In questo ambiente è una cosa che ho visto succedere diverse volte. Io, sebbene non viva di musica, la faccio ancora perché sento di dover dire qualcosa: non è detto che questo "qualcosa" sia rilevante, ma sento di doverla dire.

Per concludere: credi che l'arte e, più in generale, la cultura, possano salvare le nuove generazioni? Se tu prendi un ragazzino che ha la madre che si arrangia per campare e il padre in galera, non puoi spiegargli il senso civico. Se ci provi, lui ti sputa in faccia e ha anche ragione, vista dal suo mondo. L'unico modo per salvare le persone è stimolarle: fargli capire che, se è vero che la realtà fa schifo, possiamo quantomeno provare a renderla migliore: non possiamo dirci che la realtà va bene così e continuare ad arrangiarci. La situazione è molto complessa e senz'altro non è facile da risolvere, poco ma sicuro: ma da qui a vederla senza speranza, io non ci credo. Io per Napoli, nel mio piccolo, ho cercato anche di fare qualcosa. E ci sono tante altre persone che si impegnano per rendere questa Città un posto migliore: penso, ad esempio, alla "Ciclofficina popolare Raffaele Viviani", in cui si insegna gratuitamente ai ragazzi come aggiustare le bici, anche per promuoverne l'uso; oppure alla Radio Ashram che da qualche anno si impegna per il sociale attraverso tanti giovani volenterosi. Solo con progetti come questi Napoli può andare avanti.

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